martedì 18 dicembre 2007

Divagazioni sulle motivazioni interiori di un Arciere-Caciatore

Per milioni di anni l’uomo ha cacciato con schegge di pietra affilate, surrogando gli artigli, le mandibole possenti e i canini dei predatori selvatici. Il suo cervello si è evoluto grazie allo sforzo di trarre dalla natura gli elementi per sopravvivere, riavvicinarsi ad essi per riscoprirli oggi è una lezione preziosa.
L'arco è l'ultimo della progenie delle astuzie e degli inganni umani, migliaia di anni ci separano dal grande balzo che ha decretato la massima esaltazione del concetto dell'inganno totale, la caccia ed il colpire a distanza. Oggi cacciare con un’arma primitiva è un viaggio nel tempo per cacciare come gli antichi, ed un invito per riscoprire il rapporto essenziale con il sé "primitivo".
La passione per la caccia con l’arco, le sue tradizioni, la cultura venatoria primitiva e il fascino della storia dell’uomo sono chiamate potenti. E come tali, per molti come me, irrinunciabili. Nell’excursus della mia carriera di arciere "moderno" e cacciatore ho sempre visto con interesse, a volte frammisto a timore reverenziale, tutto l’incredibile mondo di questa cultura che ha accompagnato le ere dell’uomo nella sua evoluzione. Ho sempre individuato come punto di arrivo, come meta finale, la caccia fatta integralmente con strumenti veramente primitivi, vedendo in ciò una sorta di purificazione totale, penalizzante oltremodo dal punto di vista della quantità del risultato, ma premiante da quello della qualità, ed estremamente avvincente e ridimensionante la figura umana del cacciatore, in ultima analisi dell’uomo.
Il cacciatore moderno pratica la sua attività per sport. Sport, nella sua etimologia originaria va inteso come impiego del tempo libero, ed evasione dal lavoro di tutti i giorni, non sempre gratificante ed a volte frustrante. E nello stesso tempo il "piacere" del poter disporre del proprio tempo libero viene espresso nell’uomo d’oggi da attività logicamente poco faticose, rilassanti e impegnative il meno possibile. Chi sono allora questi cacciatori che faticano, sudano, rischiano la vita per la loro passione, e che trovano gratificazione da tutto ciò?
Oggi sport è sinonimo di ben altro per certuni, significa competitività, significa paragonarsi con altri per dimostrare la propria superiorità, eccellere tra tutti per alimentare il proprio ego.
Questo non coincide con ciò che la caccia significa per me e per altri della mia tribù. Il paragonarsi con l’elemento selvatico e primitivo della popolazione dei boschi deve servire per ridimensionare il proprio ego abituato fin troppo a porsi in competizione per il successo, per evidenziare a forti tinte un rapporto perduto tra l’uomo e l’animale che con il progresso è andato via via indebolendosi fino a scomparire nella sostanza.
In definitiva, uno dei problemi più pressanti del nostro secolo è proprio il dramma della collocazione dell’umana esistenza e della sua razionalità presunta nell’ambito della collettività degli esseri viventi in Natura. L’uomo, parafrasando Ortega y Gasset, è un animale che ha perso quasi completamente il sistema dei suoi istinti, in cambio di una vita vuota e della facoltà di ragionare e di esserne consapevole. Nel trovarsi ad esistere conserva di questo sistema istintuale solo residui incompleti, incapaci di imporgli una linea di comportamento.
Si trova così davanti ad un vuoto pauroso che deve colmare.
La Caccia in questo problematico contesto si può porre come soluzione, a patto di penalizzare il beneficio della civiltà, della presunta superiorità intellettuale e strumentale acquisita con il progresso, e puntare verso una situazione di parità virtuale in cui l’uomo diventa apprendista dei suoi istinti sopiti.
In parole povere l’efficacia dell’uomo cacciatore, ridotta alla perfezione delle sue armi non ha nulla in comune con lo scopo di questa Caccia. Non c’entra niente. Limitarsi significa soffrire nella ricerca, umiliarsi nei goffi tentativi di surrogare il predatore vero, rinunciare al carniere facile per tante piccole scoperte, emozioni, sensazioni perdute che nulla hanno a che vedere con la ragione. Limitare-limitarsi nella Caccia è imitare la Natura.
Questo tedioso preambolo per spiegare perché sempre più persone si dedicano alla Caccia Primitiva. Sempre più cacciatori rinunciano a freezer colmo in cambio di fatica, sudore ed "insuccessi venatori", così come li potrebbe intendere l’uomo schiavo del consumismo.
Ma cosa è questa caccia primitiva? Fino a qualche anno addietro credevo che cacciare con l’arco fosse già di per sé stessa una scelta coraggiosa. Credevo che lo strumento in sé fosse sufficiente per identificare uno stile di vita, un filosofico modo di avvicinarsi alla Natura. In parte è così. Lo strumento di caccia non fa il monaco, e lo spirito giusto (come lo intendo) può emergere con qualsiasi arma. Però...c’è un però. Se l’arma è poco evoluta, confrontata all’arma da fuoco e i suoi cannocchiali,
costringe al rapporto ravvicinato. Questa costrizione, di per sé, può essere annullata.
Avvicinarsi al daino ignaro è pura arte, avvistarlo nel bosco è già difficile di per sé stesso. La regola d’oro di ogni buon cacciatore responsabile è basata sulla totale sicurezza di poter mettere il colpo a segno nell’area vitale, viceversa si deve rinunciare al tiro.
Se da 200 metri si è ben nascosti (non si è penetrati nell’area d’allerta del selvatico) con un buon tiro lo si abbatte sul colpo. Ed il gioco è (quasi) fatto. Cento, centocinquanta, duecento metri sono l’ordine di grandezza "medio" di questo range di sicurezza per un cacciatore armato di carabina.
Ma strisciare per interminabili minuti avvicinandolo al limite del proprio range di certezza (o di sicurezza), quella distanza dalla quale non si sbaglia mai (!), per un arciere significa non solo penetrare l’area d’allerta dei sensi "fisici", ma significa sfidare quegli imperscrutabili e misteriosi sensi d’allarme che si manifestano quando la preda usa l’istinto di conservazione come radar potentissimo nel rivelare l’aggressività del predatore. E non è più un gioco.

Chi lo ha provato sa che a dieci metri un daino può essere ingannato con una buona tecnica nei sensi (vista, udito, olfatto) ma se l’ingombrante volitività dell’uccidere del cacciatore è forte ed incontrollata, non c’è verso di farlo. Anticamente i guerrieri ben sapevano di queste percezioni, o istinti, e si addestravano nel percepirli (nella difesa) o nel mascherarli (nell’attacco). Relegare l’Ego in un cantuccio, e la razionalità deterministica a casa cercando di farsi trascinare dagli eventi in un flusso "naturale" ed essenziale, pare sia l’unica e difficilissima ricetta. Chi meglio di un animale governato dall’istinto può applicare questa regola? Il selvatico questi istinti li conserva, noi dobbiamo addestrarci duramente. Ecco quel motivo in più che fa la differenza nella scelta dell’arma, differenza sostanziale (da cento metri a dieci) e che svela un capitolo difficile e stimolante per il quale il carniere, od il trofeo, soccombono di importanza. Vien da sé che anche nell’ambito della scelta dell’arco e della freccia sussistano differenze. Se un moderno compound tecnologico, dotato di tutti gli optional ultimo grido, associato ad una buona tecnica d’uso può definirsi sicuro mediamente fino a trenta metri, un arco tradizionale accorcia il tiro a venti. Ed un arco ed una freccia primitiva ancor di più, dieci metri a volte sono troppi. Il perché è presto detto. Se le frecce moderne e le punte d’acciaio possono essere mortali tanto quanto delle buone frecce in legno con punte di selce o ossidiana, è pur vero che costruire/costruirsi un buon arco efficace in ugual misura a quello moderno è impresa ardua, se non impossibile. Per avere velocità di freccia paragonabili a quelle d’oggi, bisognerebbe tendere archi in solo legno di “peso” tali da costringere un arciere moderno ad un allenamento "professionale" impossibile da conciliare con una vita non basata sulla lotta alla sopravvivenza pura. Con questo non voglio dire che potendo farlo ciò sarebbe male, semplicemente trovo assai difficile proporlo e realizzarlo con i nostri ritmi di vita, legati ad un ben altri concetti di "sopravvivenza".
Insomma, ci vogliono cure (per l’attrezzatura), conoscenze, sensibilità, pazienza, umiltà, allenamento e fatica, doti decisamente controtendenza per l’uomo del ventesimo secolo. Chi scende in campo per accennare il cammino, ben presto scopre un altro modo di vedere la Caccia. Ritualizza e ridimensiona e fa del suo apprendistato un percorso ricchissimo di scoperte, semplici ma sbalorditive. Come ogni buon percorso, le sue tappe sono vincolate all’intensità di colui che le percorre. La strada non è uguale per tutti, il tempo non scorre nella stessa maniera per ognuno. Personalmente la mia caccia è questo, e l’appagamento giunge per gradi anche nelle piccole cose.
Piccole? ci mancherebbe altro. Cose piccole viste con il grandangolo diventano enormi con l’obbiettivo da ritratto, e gigantesche con l’obbiettivo macro. E’ una questione di ottica, quindi, ottica che permette l’indagine verso situazioni e realtà che normalmente sfuggono all’occhiata distratta e superficiale di chi è abituato agli effetti speciali. Ecco così che la ricerca delle tracce diventa di per sé una Caccia favolosa, che l’avvistamento e l’avvicinamento da per loro diventano Puri Piaceri; e che le mille volte che la nostra goffa e maldestra attitudine predatoria fa fiasco, facendo fuggire il selvatico spaventato da chi sa quale nostro errore, scatena i più contrastanti effetti emotivi.
Quella fuga è anch’essa uno straordinario piacere. Il piacere d’assistere ad una strabiliante, seppur ovvia, rivincita della Natura sulla nostra presunzione. E’ assaporare per un istante ciò che per i nostri progenitori era consueta "lotta" per la selezione.

Giovanni Maio
http://www.unarc.it/

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